IL VOLONTARIO NELLE CURE PALLIATIVE 

di Achille Tironi - Volontario AHMIS (Amici Hospice Malattie Infettive Sacco)

relazione tenuta  in occasione di: "2005 - 2015 Hospice Malattie Infettive: un sogno, una realtà" CONVEGNO "Le cure palliative: supporto al malato e alla famiglia" - 17 aprile 2015




Ho resistito nell'aderire alla proposta di questa breve testimonianza, per due ragioni che sottopongo anche al vostro giudizio.
La prima riguarda la cornice in cui ci muoviamo, quella celebrativa dei 10 anni di vita di questa struttura. Ritenevo più vantaggioso ascoltare la voce di chi aveva accompagnato per intero questo primo e ancora breve tratto: avendolo percorso solo per metà pensavo che una ragione di Opportunità consigliasse una diversa scelta.
La seconda riguardava più propriamente il merito. L'argomento, infatti, si presta ad una testimonianza più che ad un'argomentazione e, in questo caso, abbisogna di un sottotitolo destinato a qualificarla. "La speranza che mi è venuta incontro", oltre ad essere un titolo pertinente, credo consegni a tutti noi una chiave interpretativa per cogliere il valore di un progetto che intende proporsi come un guadagno di civiltà. 


OPPORTUNITA'

"Opportuno" era il nome con il quale i latini distinguevano il vento che spingeva le navi in porto e ne facilitava l'attracco. Opportunità qualifica nel linguaggio comune una spinta, un aiuto conforme al desiderio, alle necessità.

In questo luogo il termine esprime il modo adeguato di praticare la cura, di favorire il governo di una vita che si dirige all'ormeggio definitivo. Ma esprime, anche e propriamente, il soffio leggero, atteso e provvidente, in cui si natura la presenza del volontario in questo luogo.

Il contesto, nella sua complessa drammaticità, richiede al volontario un approccio relazionale che, collocando su un piano diverso le inadeguatezze e i ritardi mai completamente rimovibili (non ci sono strutture perfette), privilegi la ricchezza di possibilità dischiuse in ogni possibile relazione, sufficiente ad avere ragione di qualsivoglia asprezza e rigidità.

Entrare in relazione significa favorire, a partire dalla presenza e dallo sguardo, l'espressione delle attese profonde che, nei nostri ospiti, sono soffocate dalla malattia e sono causa dell'isolamento e dello smarrimento cui costringe la perdita di autonomia (depressione, angoscia).

Le attese sono cose ben diverse dai bisogni. Le mie attese, le nostre e le loro attese, riconsegnano il nostro valore personale, palesano la nostra umanità singolare, esprimono quella profonda unità del nostro essere che mai accetta di essere mutilata in alcuna delle sue dimensioni costitutive (emotiva, sociale, biologica, spirituale).

Lo sguardo del volontario è educato a tenere dentro tutto: azioni ed emozioni, salute e malattia, benessere e dolore, vita e morte.

Un'ampiezza di orizzonte che, se accompagnata dalla coscienza dei propri limiti, lo tutela dalla condizione di impotenza (c'è sempre qualche cosa che si può fare) salvaguardandolo anche da un rischio assai più grave, quello dell'abbandono e del tradimento.

Volontaria, in questo luogo, è l'intenzionale e coerente disponibilità a testimoniare serenità e fiducia anche quando il buio avanza, nella grata consapevolezza di dovere questo alla vita.

Ma tutto ciò non cresce come i fiori che si incontrano negli alpeggi, espressione della magnificente ricchezza della natura. E' esito di un'esperienza sedimentata, di un costume personalmente assunto e costantemente migliorato attraverso un percorso di relazioni performanti e costitutive, praticate ogni giorno.

Noi che siamo venuti dopo costruiamo su un fondamento già gettato, facciamo rivivere dentro di noi una testimonianza ricevuta, disponibili ad interpretarla in modo assolutamente originale, nel rispetto di alcune caratteristiche fondanti.

Al volontario è richiesta, infatti, una specifica iniziazione a percepire e tenere acceso il decisivo attaccamento alla propria identità personale in coloro in cui questa fermezza rischia di spegnersi, o è già rimasta soffocata. Difendere tale fertile originalità, che non deve andare smarrita, qualifica il nostro ospite come soggetto accompagnato e mai come semplice "oggetto di cura".

Egli, pure nella completa mancanza di autonomia, o nel mutismo cui è consegnato dalla sofferenza e dalla malattia, è sempre attiva rivelazione che chiede di essere accolta.

Se il volontario si tiene aperto su questa imprevedibile novità, educando i sensi dell'ascolto, della comprensione e della vicinanza, dal suo prendersi cura gli viene restituito, insieme al senso del suo agire, il significato più ampio della sua stessa vita.

A volte il riscontro è immediato, specie quando avviene dentro un vortice di preoccupazioni, inquietudini e paure che possono essere neutralizzate, assecondando le istanze di serenità che tutti condividiamo. Altre volte la corrispondenza è più difficile, la relazione più problematica, ma può sempre essere autentica e preziosa.

In ogni caso sono i nostri ospiti che conferiscono specificità propria al nostro agire, qualunque sia la loro condizione. Non si limitano a riconoscerne importanza e utilità (sarebbe veramente una poca cosa), ma attraverso il cambiamento che inducono in noi esercitano un ruolo di trasformazione sociale e culturale. 

Rendono visibile nei volontari e in tutti gli operatori sanitari attenti ed empatici, un plus qualitativo a tutti gli effetti misurabile, cioè capace di modificare il modo di essere di questa istituzione.

Sollecitano il volontario a porsi in gioco integralmente - "lo chiamano a decidersi per" - prendendo coscienza di essere originariamente e inestricabilmente libertà, volontà e conoscenza.

In tal modo la testimonianza del volontario abita una storia ordinaria e il suo agire scaturisce dalla fiducia con cui egli si affida all'imprevedibile, alle attese che lo sollecitano a corrispondere. Egli indaga il vissuto, progetta modelli per l'avvenire assumendo come "testo" il quotidiano; acquista intelligenza dall'agire, perché mai il suo agire pratico si riduca a semplice agire operativo.

LA SPERANZA CHE MI E' VENUTA INCONTRO

Il sottotitolo mi consente di schizzare il profilo del volontario che mi porto dentro. Non intendo né proporlo né raccomandarlo: lo offro semplicemente come testimonianza. A ciascuno, infatti, è sollecitata originalità nell'interpretare le caratteristiche fondanti il costume di questo luogo e che considero condivise.

I miei primi passi in Hospice sono stati titubanti: ho dovuto tenere basso il volume del mio vociare interiore e legare al guinzaglio le mie certezze e le ragioni che mi avevano indirizzato nella scelta. Mi sono semplicemente deciso: mi sono, per così dire, buttato.

Sorpreso positivamente dall'attenzione riservata alla persona e dalla pratica clinica tesa a misurarsi con lo spessore del dolore mi risultò abbastanza facile sciogliermi dentro questa progettualità di portare sollievo.

Nutrivo però un'ambizione: quella di partecipare ad un cambiamento culturale, come soggetto consapevole e attento, ma la cassetta degli attrezzi che mi portavo appresso si rivelava ogni giorno sempre meno adatta allo scopo.

La mia disponibilità era sollecitata ad ampliarsi: lasciarmi cambiare da coloro che ogni giorno immediatamente e imprevedibilmente incontravo. Compresi allora che dovevo aprirmi a nuove relazioni, lasciare che occupassero uno spazio, un tempo, accendessero emozioni importanti nella mia vita.

Descrivo tutto questo processo alla stregua di una crescente possibilità a lasciarmi inventare dal quotidiano, accogliendolo come un rinnovato mistero da decifrare e al quale affidarmi con fiducia. Soprattutto volentieri.

La mia ambizione finì così per transitare nelle mani di altri, farsi immanente alle loro attese. La qualità della mia risposta poteva commisurarsi con il sollievo che loro provavano nel riprendere contatto con una realtà ostile, fonte di paure e dalla quale tenersi lontano chiudendosi a riccio dentro un "io" stretto e angosciante.

Mi fu offerta la possibilità di conoscere i "Fiori di Bach" e, seppure si presentassero distanti dal mio sentire, mi lasciai coinvolgere in momenti formativi dei quali conservo ancora vantaggioso ricordo e devota gratitudine, per la disponibilità dalla quale sono stato circondato.

Ho iniziato così a riservare maggiore attenzione anche a ciò che, irriducibile al biologico e allo psichico, ne postula la cooriginaria unità: alle emozioni.

Tutto questo è servito a cambiare ulteriormente me stesso e rendermi maggiormente disponibile a dare voce, a partire dalle emozioni, alla attesa di aiuto che giace nel profondo dell'animo nel tempo della crisi, quando si accende il turbine interiore della tempesta per l'inesorabile approssimarsi del morire.

Gli occhi e le mani hanno imparato a trasfondere l'aiuto che accompagna il malato terminale nella fatica del distacco da ciò cui più è legato; segni di una presenza, condivisione di un tempo e di uno spazio terribilmente vuoto.

Nel profondo lago, in cui alcuni ospiti mi hanno lasciato attingere, ho potuto percepire ciò che gorgogliava della loro libertà. Ho condiviso la collera, il risentimento, la paura, la rivolta, la rassegnazione e infine l'accettazione; ho corrisposto all'attesa che ciascuno nutriva di esprimere un bisogno urgente di salvezza; sono divenuto crogiuolo nel quale accogliere e purificare il senso di una vita che bramava un diverso e ben altro tu, per rispecchiarsi e riconoscersi.

Ho lasciato attecchire, nella prossimità, relazioni che hanno coinvolto la mia libertà, l'hanno istruita e costituita. Ho accettato di diventare allievo della sofferenza, del dolore e anche della morte e ho conosciuto in questo modo il volto della speranza, compagna dei luoghi e dei tempi in cui sembra più smarrita.

L'ho incontrata e mi ha sorriso proprio dove si nasconde agli occhi di chi non la vuole veramente incontrare: mi ha cambiato il volto e il cuore. Ho compreso, infatti, con disappunto che quando ne godevo la presenza dentro il pozzo dei miei desideri, vi trovavo in realtà riflesso solamente la mia immagine. Speranza ora è per me un dono da accogliere e portare in grembo: è la promessa della vita della quale prendere consapevolezza.

Ciò che prima chiamavo speranza, gli oggetti della mia speranza (salute, beni, successo) sono ben poca cosa rispetto alla promessa di bene che ora posso accogliere come definitiva, dentro la fragilità del mio essere.

In verità noi già l'accogliamo, ma inconsapevolmente, dentro lo spazio e il tempo delle relazioni che ci hanno costituito, senza provare gratitudine e desiderio di conoscerla veramente.

Ma quando più che mai abbiamo bisogno, allora ella, la Speranza ci viene incontro, e la vediamo faccia a faccia. Ci aiuta in questo la nostra fragilità quando, senza più spazio e tempo, tenta l'affidamento definitivo.


Achille Tironi - 17 aprile 2015
la foto in apertura è "la Speranza", una delle formelle della porta sud del Battistero di Firenze, opera di Andrea Pisano



  

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