Passeggero vai, non avere paura!
di Achille Tironi - Volontario AHMIS (Amici Hospice Malattie Infettive Sacco)
Ci eravamo accorti che nel reparto non avevamo un letto capace di contenere distesa la sua lunghezza. Guardavo "sua altezza", la sua corporatura esile e scavata, mentre lentamente si allontanava. Maglietta e pantaloni, più che indossati, figuravano posti su uno stenditoio di fortuna.
Lo sguardo tratteneva fierezza ma segni di delusione solcavano la maschera del viso contratto e poco disposto al sorriso. Percepivo lo stridore di pensieri ruvidi che, dibattendosi, gli graffiavano l'animo e non concedevano riposo alla mente. Era esausto e, impossibilitato a fuggire altrove, misurava a spanne la strana gabbia che si era trovato intorno.
Portai in camera sua la ciotola con i Fiori che avevo preparato per aiutarlo ad avere ragione dello chock che doveva aver provato passando l'ingresso dell'Hospice. Rescue Remedy, poi Mimulus per vincere la paura e Water Violet per evitare il rischio di una chiusura in sè. Buttai l'occhio in giro in cerca di un appiglio che mi permettesse di sollevare il mio volto all'altezza del suo e addolcire il suo sguardo. Appesa e quasi del tutto nascosta dalla porta, avevo riconosciuto la maglia ufficiale delle partite internazionali.
Milan! Milan! Lanciai in corridoio il roco eco della curva nord capace scaricarti da ogni altro pensiero, vibrando all'unisono con la struttura dello stadio.
Un sorriso ampio accolse il mio cinque e, senza una parola in più, gli sfuggii strisciandolo e camminando deciso nella direzione opposta, proprio come se fossi atteso altrove. L'aggancio era riuscito.
Lo ritrovai, di ritorno, sull'ingresso della camera, orgoglioso per la maglia della quale avevo intravisto solo il bianco e i colori sociali. Me ne mostrava il dorso, distendendola all'altezza del mio viso: 92 EL SHAARAWY e la firma autografa del "Faraone".
Due giorni più tardi accolse refrattario il mio invito per una passeggiata nel parco. Sentiva il bisogno di riposare e soffriva sul fianco sinistro: mi accordai per due ore più tardi avventurandomi in un colloquio reso impraticabile dalle mie carenze linguistiche. Avevo però appreso l'indispensabile.
O. veniva dalla Nigeria, aveva 33 anni, era solo, la corona del rosario al collo, la Bibbia sul tavolino, un intervento invasivo alle spalle, il presente in un dormitorio di periferia, nessuna voglia di ritornare a casa. Destinazione Inghilterra.
Restò con i suoi pensieri, disteso sul fianco sinistro, le gambe contratte ed i piedi fuori dal letto. Gli occhi erano aperti, senza fissare la parete; li attraversava una densa nebbia di delusione che non voleva svanire.
Lo lasciai cercando dentro di me le parole del bellissimo canto con cui Giosy Cento si china con commovente dolcezza sul lacerante distacco che ogni giorno si consuma davanti ai nostri occhi senza scuotere la nostra indifferenza.
Tu sei la mia sorgente, sei la stella mia,
mi hai partorito un giorno, sei la mamma mia,
a piedi nudi e freddi ti ho calpestato
e tu mi hai sussurrato: un fiore bello è nato.
Tu sei mia sorella, sei la mia ragazza,
ci siamo fidanzati un giorno sulla sabbia.
In tasca i pugni stretti per sentirmi forte,
ho alzato la mia vela e ho pregato il Vento.
Terra, guardo il mare e vado via,
nei miei occhi solo tu,
il vero grande amore, il cielo su di me,
uno strappo di dolore che mi porta via da te
e il vento è nostalgia di chi ritornerà. (1)
Abbiamo trascorso insieme il pomeriggio fino all'ora della terapia serale. Un passo dopo l'altro, taciturno ma con gli occhi attenti, si è portato via di me più di quanto potessi prevedere. Gli ho mostrato tutta la struttura dell'Ospedale, Università compresa, con l'intento di accendere in lui fiducia e contrastare la resistenza originata da esperienze che lo avevano segnato negativamente.
Mentre sorseggiava un'aranciata al bar dell'Università guardava ragazze e ragazzi, appena più giovani di lui, a cui la vita offriva possibilità di cui non si rendevano conto. Teneva tra le mani la lattina vuota, la appoggiava e poi la riprendeva. Lui stesso era chiamato a dover conferire peso a situazioni e cose con un'urgenza che non consentiva esitazioni. Anche la mia persona gli creava interrogativi che non riusciva ad esprimere.
I suoi giorni erano stati amari e avari di dolcezza, sperimentando sulla sua pelle ciò da cui noi volontari dovremmo sempre guardarci. Quando ci facciamo strada, ci avvantaggiamo servendoci proprio di coloro per i quali la vita è già troppo pesante, aggiungiamo peso al peso. Il ricevere, pure se abbondante, in questo caso mortifica, cancella il sorriso e spegne i sogni.
Seguirono giorni in cui risultò arduo, e per lui doloroso, medicare la sua anima che gridava aiuto. Ritenemmo per lui indicati nuovi Fiori: Walnut per accogliere la nuova situazione; Oak per favorire l'affidamento alle persone che promettevano di accompagnarsi a lui.
Al corrente della sua diagnosi trovò grande difficoltà a prendere atto di una prognosi che lo inghiottiva senza scampo. Il progredire del male e il venir meno delle forze lo convinsero molto presto dello sfiorire di ogni possibilità e gli proponemmo i Fiori Rock Rose e Sweet Chestnut per aver ragione del terrore e dell'angoscia che una simile presa d'atto comportava.
I suoi giorni, attraversati da un dolore e da un'ansia indomabili, divennero insopportabili. Favorimmo per qualche giorno il suo rientro presso la Comunità che lo aveva ospitato prima del ricovero, pronti a riaccoglierlo quando l'ansia e il dolore divennero incontenibili.
Ospitammo la sua persona, la sua rabbia (Holly) e il suo risentimento (Willow) motivati dal sospetto che non fosse stato fatto tutto il necessario per lui. Cercammo la sua comprensione (Beech) perchè ci consentisse di stargli vicino nell'ultimo tratto di un viaggio diretto ad una diversa meta.
Passeggero vai, non avere paura
la tua alba è sempre accesa
e il sole ti fa strada. (2)
(1) Giosy Cento: "La Vela e il Vento"
(2) Giosy Cento: "Passeggero"
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