I Fiori di Bach come "narrazione nel tempo della crisi"
di Achille Tironi - Volontario AHMIS (Amici Hospice Malattie Infettive Sacco)
Nulla accade due volte, nè accadrà
Nulla accade due volte
nè accadrà. Per tale ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione.
Anche agli alunni più ottusi
della scuola del pianeta
di ripetere non è dato
le stagioni del passato.
Non c'è giorno che ritorni,
non due notti uguali uguali,
nè due baci somiglianti,
nè due sguardi tali e quali.
Ieri, quando il tuo nome
qualcuno ha pronunciato,
mi è parso che una rosa
sbocciasse sul selciato.
Oggi, che stiamo insieme,
ho rivolto gli occhi altrove.
Una rosa? Ma cos'è?
Forse pietra, o forse fiore?
Perchè tu, malvagia ora,
dai paura e incertezza?
Ci sei - perciò devi passare.
Passerai - e qui sta la bellezza.
Cercheremo un'armonia,
sorridenti tra le braccia,
anche se siamo diversi
come due gocce d'acqua.
Wislawa Szymborska (Premio Nobel 1996 per la letteratura)
Ho scelto questa poesia per introdurci all'argomento in quanto esprime una forte sollecitazione a sporgere lo sguardo su "il lato sereno del mondo", che può rivelarsi solo affinando i nostri sensi.
Per accostare il mondo delle cure palliative è richiesta una vera e propria iniziazione a fare emergere in ciò che è tenue, pallido e flebile, il decisivo attaccamento ad una originalità personale che non può essere perduta.
L'uomo che qui incontriamo, anche nella passività più tremenda della malattia, continua ad essere il soggetto ativo di una rivelazione che chiede di essere accolta, nella sua imprevedibile bellezza, rinunciando a quella presunzione del "già visto" che, se da una parte sembra tranquillizzarci, di fatto ci rende ciechi, sordi e tardi di cuore.
Questa "apertura sulla novità" qualifica in modo prezioso l'azione di chi opera all'interno di una struttura di cure palliative ed è premessa insostituibile per poter instaurare relazioni significative, corrispondendo ai bisogni del malato e della sua famiglia.
E in maniera ancora maggiore tale "attitudine all'accoglienza" è richiesta ai volontari chiamati ad assicurare la loro presenza, dentro un lavoro di èquipe, come ascolto attivo, comprensione, vicinanza e sfida al dolore globale.
Nel rispetto dei diversi ambiti nei quali si coniuga il "prendersi cura" della persona, il volontario si confronta e misura con il vortice delle paure, preoccupazioni, ansie, inquietudini che, nei fatti, accentua gli effetti della malattia. La consapevolezza, con la quale l'intera équipe si fa carico di questi aspetti, esprime quella attenzione reale alla persona che privilegia il bisogno di serenità alla quale anela. Nei momenti della fatica e dello sfinimento, che caratterizzano l'ultimo tratto del percorso di vita, il malato con prognosi infausta sente il bisogno di comunicare il suo atteggiamento nei confronti della vita.
Come volontario che opera all'interno di un Hospice, fin dal primo istante ho preso atto della possibilità della cura avvolgente che si deve all'uomo, attuata attraverso i tratti di una pratica clinica che non rinuncia a misurarsi con la personale concretezza del dolore.
La presenza in questo ambito mi ha esposto ad un contagio benefico: passando attraverso un vissuto imprevedibile, ho finito per lasciarmi forgiare dalla stessa imprevedibilità, prendendo cioè fiamma dal fuoco. Ho avuto modo di recuperare il valore originale e insostituibile della quotidianità, partecipando alla continua "invenzione" di una medicina chiamata ad essere espressione consapevole e attenta della società civile.
Mi sono servite come orientamento queste parole: "Il volontariato non consiste nel fare una serie di cose ma consiste nella capacità di prendere parola su ciò che si è fatto per renderla comunicabile e cultura...Una comunità di cura è una comunità che si interroga su se stessa, sui propri processi di esclusione e di inclusione, e che trova il coraggio di mettere in discussione le strutture fondamentali della relazione che sta producendo".
Nella struttura delle cure palliative sono giunto a conoscere i "Fiori di Bach" e, coinvolto direttamente in preziosi momenti formativi, penso di poter descrivere quanto segue come narrazione di ciò che, irriducibile al biologico e allo psichico, può essere definito il tempo della crisi in cui si dilata e si vive l'inesorabile approssimarsi del morire.
Ho preso coscienza di appartenere anch'io inconsapevolmente a quel vivere vorticoso che diniega la morte e sono giunto a provare il disagio di non poter dare credito ai progetti irreali nei quali il malato, e i familiari, cercano rifugio. Ho accettato (e vorrei averlo fatto con maggior profitto!) di accompagnarmi alla fatica con la quale il malato compie il distacco da tutto ciò cui è legato, e mi è stato dato di accogliere le manifestazioni più vere della sua libertà.
Conosco la negazione, la collera, il risentimento con cui il malato terminale reagisce alla situazione; percepisco la paura, la rassegnazione, la accettazione dentro le quali si esprime il nesso ineludibile tra malattia, sofferenza e vissuto psicologico. Ma è proprio dentro questo crogiuolo che ho accolto la possibilità di sporgermi sul senso della vita, corrispondendo al bisogno del malato di esprimere la propria attesa di salvezza.
La malattia è stata occasione nella quale ha attecchito la prossimità di una relazione che ha coinvolto anche la mia libertà: mi sono lasciato istruire dalla sofferenza.
Un ruolo importante ha avuto in tutto questo l'attenzione alle emozioni (richiesta dalla pratica dei Fiori di Bach) come attenzione alla persona, accompagnamento reale.
I Fiori di Bach, iniziandomi ad una attenzione e ad un ascolto che mi hanno sorpreso, hanno contribuito a cambiare anche me. La vicinanza con il limite della vita mi ha consentito non solo di cogliere le emozioni, ma di restituirne insieme il senso, come senso del limite.
Tutto questo mi è sembrato trovare riscontro nelle parole del dott. Bach: "Per quanto ci riguarda, noi dobbiamo praticare la pace, l'armonia, l'individualità e la fermezza d'intenti. Dobbiamo sempre più convincerci che nella nostra essenza siamo di origine divina, siamo figli del Creatore e perciò abbiamo in noi, anche se ci curiamo poco di svilupparlo, il potere di raggiungere la perfezione. Questa realtà deve acquistare forza dentro di noi finchè diventerà il segno più evidente della nostra esistenza. Dobbiamo fermamente esercitare la pace interiore, immaginando la nostra mente come un lago da mantenere calmo, senza ombre e increspature che possano turbare la sua tranquillità. Sviluppando gradatamente questo stato di pace, arriveremo al punto in cui nessun evento, nessuna circostanza, nessuna personalità potranno in alcun modo agitare la superficie del lago o destare in noi sentimenti di irritabilità, di depressione o di incertezza".
Per coloro che devono varcare l'ultima soglia, possiamo immaginare tante cose utili, indispensabili. Tra queste trovano giustamente posto la terapia del dolore e le tecnologie biomediche che permettono di alleviare i sintomi.
Possiamo anche immaginare strutture sempre più adeguate per accogliere i malati terminali ed i familiari ed assicurare loro un tempo di vicinanza ed accompagnamento.
Ma tutte queste cose, pur essendo utili o persino indispensabili, non bastano: ciò che serve è l'ascolto, la parola, la relazione nella quale cogliere insieme l'ordito di una narrazione.
Achille Tironi
Ringrazio di cuore Achille che ha scritto queste parole e mi ha permesso di condividerle in occasione della conversazione sull'uso dei Fiori di Bach in Hospice che sono stata invitata a tenere al Master di secondo livello in Medicine Palliative - Università degli Studi di Milano - Facoltà di Medicina - nel novembre 2012.
bellissimo! Grazie.
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